• Fino a pochi anni fa, la mielofibrosi era considerata una patologia causata solamente da alterazioni tumorali del midollo osseo ma grazie alla genetica, la biologia molecolare e l’immunologia, si è visto che esistono ulteriori meccanismi che concorrono allo sviluppo della malattia: l’infiammazione e l’alterazione delle funzioni del sistema immunitario. Queste scoperte hanno indirizzato la ricerca farmacologica in altre direzioni e, nei prossimi anni, i pazienti affetti da mielofibrosi potranno beneficiare di nuove terapie che al momento sono in fase di studio e mostrano risultati promettenti. Abbiamo intervistato Alessandro Lucchesi, medico specialista in ematologia presso l’IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori di Meldola, che ci regala una panoramica sulle terapie sperimentali più promettenti.

    La mielofibrosi fa parte delle neoplasie mieloproliferative croniche ed è caratterizzata da una componente cellulare e una fibrotica. Nel midollo osseo le cellule staminali ematopoietiche, che danno origine a tutte le cellule del sangue, proliferano in modo incontrollato a partire da una sola cellula che subisce una mutazione genetica (clone tumorale). Inoltre, avviene anche la deposizione di fibre di collagene che formano una sorta di cicatrice, la fibrosi. La fibrosi, progressivamente, sostituisce la parte cellulare e ne consegue una ridotta produzione delle cellule del sangue con sviluppo di anemia (riduzione dei globuli rossi), piastrinopenia (riduzione delle piastrine) e leucopenia (riduzione dei globuli bianchi).

    Come spiega il dottor Lucchesi “tre delle più frequenti e conosciute mutazioni genetiche nella mielofibrosi, chiamate driver, sono quelle dei geni JAK2, CALR e MPL ma, grazie agli studi genetici più recenti, si è scoperto che esistono tante altre mutazioni che possono avere un ruolo fondamentale nella progressione della malattia.”

    Il "Rinascimento" della mielofibrosi

    “Fino a qualche anno fa si interpretava la mielofibrosi solo da un punto di vista oncologico: una condizione nella quale c’è un clone tumorale proliferante che va bloccato e rimesso al suo posto. Ora che si sono acquisite nuove informazioni nei campi della biologia molecolare e dell’immunologia, si è capito che la mielofibrosi assomiglia anche alle malattie reumatiche autoinfiammatorie come l’artrite reumatoide. La progressione della malattia, infatti, non dipende solo dalla componente tumorale ma anche da due meccanismi che sono tipici delle malattie reumatiche: l’infiammazione e la disimmunità, ovvero un’alterazione delle funzioni del sistema immunitario” continua Lucchesi.

    “Stiamo vivendo degli anni di intenso entusiasmo nel mondo della mielofibrosi rispetto al passato che era arido e desertico."

    L’unica conquista ottenuta in ambito farmacologico è stato il ruxolitinib, un inibitore delle chinasi JAK, che viene tuttora utilizzato nella pratica clinica, ma poi ci sono stati diversi anni di silenzio. Le recenti scoperte però hanno consentito di sviluppare nuove terapie sperimentali promettenti soprattutto per le fasi più avanzate di malattia.”

    La mielofibrosi, nelle fasi iniziali, rimane asintomatica e la diagnosi può essere fatta in modo accidentale dopo un’analisi del sangue effettuata per altri motivi. Alla maggior parte dei pazienti viene diagnosticata in fasi più avanzate e si manifesta con sintomi anche gravi come anemia, ingrossamento della milza (splenomegalia) e trombosi. È quindi importante avere a disposizione nuovi farmaci che possano contrastare la malattia più avanzata.

    “Sulla base delle caratteristiche cliniche della patologia e dell’età del paziente si calcola il rischio di aggravamento della mielofibrosi. A seconda del livello di rischio si può decidere per una semplice osservazione senza terapia fino ad arrivare a un atteggiamento molto aggressivo che corrisponde al trapianto allogenico di midollo osseo. Il trapianto è l’unico trattamento che può curare la malattia ma purtroppo ne può beneficiare solo un numero ridotto di pazienti.”

    Nuovi farmaci all’orizzonte

    I pazienti non idonei al trapianto vanno incontro alla terapia farmacologica che si arricchirà di nuove opzioni nel prossimo futuro. “Ci sono, infatti, dei protocolli terapeutici in fase molto avanzata di sperimentazione che possiamo contare di avere in commercio nei prossimi anni. Attualmente diversi farmaci contro la mielofibrosi sono in fase III di sperimentazione clinica come l’imetelstat, un inibitore delle telomerasi, e altri come il parsaclisib, un inibitore di PI3K, che viene somministrato in associazione con ruxolitinib come anche il CPI-0610 che è un inibitore di BET e il navitoclax, un inibitore di BCL-2” continua Lucchesi.

    La PI3K, la telomerasi, le BET e BCL-2 sono proteine coinvolte nella trascrizione del DNA, nella proliferazione e sopravvivenza delle cellule. Bloccando le loro funzioni si possono annientare le cellule tumorali.

    “In fase III di sperimentazione ci sono anche altri inibitori di JAK come il pacritinib che agisce in modo simile a ruxolitinib ma ha come vantaggio una bassa tossicità per la conta piastrinica. Non causando una riduzione del numero delle piastrine si può utilizzare anche nei pazienti che hanno carenza di queste cellule del sangue. Il momelotinib, oltre a inibire JAK, ha anche un’azione antianemica perché riesce a interferire con alcuni meccanismi genetici di regolazione del metabolismo del ferro rendendo disponibile questo elemento essenziale per la produzione dell’emoglobina e quindi dei globuli rossi.”

    “Altri farmaci in sperimentazione sono: gli inibitori di MDM2 che permettono di ripristinare l’apoptosi delle cellule tumorali inducendole a suicidarsi e si prestano a una terapia di combinazione perché hanno un meccanismo complementare a quello degli inibitori di JAK, e gli inibitori di BTK come TL-895 che, interagendo con alcune proteine dell’inflammosoma, un complesso cellulare implicato nella risposta infiammatoria, spengono efficacemente l’infiammazione. Questi ultimi sono quindi farmaci più indicati per pazienti con sintomi infiammatori molto spiccati e con splenomegalia.”

    “Promettenti sono anche gli inibitori multichinasici che agiscono contemporaneamente su più meccanismi patogenetici della mielofibrosi. Tra questi abbiamo l’alisertib, studiato dal gruppo di ricerca guidato dall’ematologo americano John Crispino a Chicago. Anche il selinexor può essere inserito in questa categoria perché pur bloccando l’attività di una sola proteina, l’esportina, riesce a inibire una serie di altre proteine perché essa è fondamentale per la loro funzione.”

    Il futuro della terapia per la mielofibrosi

    “La storia dell’ematologia dimostra che più conoscenze si hanno a disposizione più aumentano le probabilità di produrre delle terapie target che vadano a colpire un bersaglio specifico della malattia senza disturbare le cellule sane” conclude il dottor Lucchesi. “Il futuro del trattamento della mielofibrosi è indirizzato verso la terapia personalizzata, cucita sulle caratteristiche genetiche e cliniche del singolo paziente e non più generica, uguale per tutti.”

  • In 4 centri clinici italiani e in altri 45 nel mondo è aperta ai pazienti una sperimentazione clinica, con codice identificativo NCT03377361, che ha lo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di combinazioni di farmaci biologici, come nivolumab e ipilimumab, con trametinib in pazienti con carcinoma del colon-retto che si è diffuso nonostante un precedente trattamento con farmaci antitumorali.

    Cosa è il tumore del colon retto?

    Il carcinoma del colon-retto è un tumore molto frequente e, in Italia, colpisce più di 40.000 persone all’anno. Si sviluppa a partire dal tessuto che riveste la superficie interna dell’ultima porzione di intestino, il colon. Generalmente non è un tumore molto aggressivo e se diagnosticato nelle sue fasi iniziali ha una buona prognosi (sopravvivenza a 5 anni superiore al 65%). Per questo motivo il Sistema Sanitario Nazionale offre uno screening gratuito ai cittadini nelle fasce d’età più a rischio (tra i 50 e i 69 anni). Quando il tumore si diffonde oltre gli strati superficiali del colon diventa più difficile da trattare e può diffondersi e metastatizzare nonostante la terapia antitumorale.

    Come si svolge lo studio clinico?

    Lo studio clinico di fase I/II An Investigational Immuno-therapy Study Of Nivolumab In Combination With Trametinib With Or Without Ipilimumab In Participants With Previously Treated Cancer of the Colon or Rectum That Has Spread, promosso da Bristol Myers Squibb, ha lo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di combinazioni del farmaco biologico nivolumab con trametinib e ipilimumab nei pazienti in cui il carcinoma del colon-retto non ha risposto a trattamento standard.

    Il nivolumab e ipilimumabsono farmaci biologici che agiscono potenziando l’attività antitumorale delle cellule del sistema immunitario e sono utilizzati per trattare diversi tipi di tumori. Il trametinib è una molecola antitumorale già utilizzata nel trattamento del melanoma.

    232 partecipanti, 4 farmaci in studio, 6 gruppi di trattamento

    Lo studio prevede il coinvolgimento di 232 partecipanti che, trattandosi di uno studio randomizzato, verranno suddivisi in modo casuale in 6 gruppi di trattamento: un gruppo riceverà la combinazione nivolumab+trametinib, a quattro gruppi sarà somministrata la combinazione nivolumab+trametinib+ipilimumab in dosi diverse e un gruppo riceverà regorafenib. Regorafenib è un farmaco antitumorale che viene già utilizzato nella pratica clinica come monoterapia del carcinoma del colon-retto metastatico precedentemente trattato.

    Quali sono gli obiettivi dello studio?

    Gli obiettivi primaridegli sperimentatori sono quelli di valutare l’incidenza di effetti tossici che impediscono l’aumento della dose del farmaco (a 23 mesi dall’inizio della somministrazione), l’incidenza di eventi avversi e decessi (a 100 mesi), l’incidenza di variazioni significative nei parametri di laboratorio e il tasso di risposta oggettiva (a 77 mesi).

    Altri obiettivi sono: valutare l’efficacia della terapia nel controllare la malattia, le tempistiche e la durata della risposta al trattamento, l’incidenza degli eventi avversi dopo 100 mesi.

    La sperimentazione terminerà approssimativamente a gennaio 2026.

    Come si può partecipare allo studio clinico?

    I principali criteri che permettono di essere coinvolti nello studio clinico, definiti criteri di inclusione, sono:

    • Essere maggiorenni
    • Avere una diagnosi di adenocarcinoma del colon-retto metastatico precedentemente trattato
    • Avere stabilità dei microsatelliti all’immunoistochimica e/o PCR
    • Performance Status adeguato (valutato con la scala ECOG – Eastern Cooperative Oncology Group)

    I più importanti criteri di esclusione dalla sperimentazione sono, invece:

    • Avere la mutazione BRAF V600E
    • Avere metastasi cerebrali o delle leptomeningi
    • Avere una malattia autoimmune in fase attiva
    • Avere avuto una precedente malattia dell’interstizio polmonare o polmonite
    • Avere allergie ai farmaci utilizzati nello studio.

    Presso quali centri ospedalieri è in corso la sperimentazione clinica?

    l centri clinici italiani coinvolti nella sperimentazione sono:

    Per maggiori informazioni sugli obiettivi dello studio e i criteri di inclusione o esclusione e per valutare la possibilità di partecipazione alla sperimentazione, è necessario che il proprio medico di riferimento prenda visione della scheda dello studio clinico. Per ulteriori informazioni è possibile anche consultare questa pagina.

     

     

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  • terapia genica per la cistinosi

    Cercare di ripristinare una cistinosina funzionante: questo l’obiettivo del gruppo di ricerca guidato da Stéphanie Cherqui alla University of California

    Iniziato nell’estate del 2019, il trial clinico “Stem Cell Gene Therapy for Cystinosis” ha l’obiettivo di valutare un approccio di terapia genica per il trattamento della cistinosi, rara malattia genetica causata da mutazioni nel gene CTNS. Questo gene produce una proteina – chiamata cistinosina – che si trova nella membrana dei lisosomi e serve per il trasporto della molecola cistina: se il DNA è mutato, la proteina è difettosa e ciò si traduce in un accumulo di cistina nelle cellule, con conseguente danno ai tessuti e, nei casi più gravi, insufficienza multiorgano. Una terapia genica in grado di correggere l’errore alla base della patologia potrebbe essere una soluzione vincente.

    Grazie all’introduzione della cisteamina come trattamento per questa malattia metabolica ereditaria, le vite dei pazienti sono cambiate e la qualità (e la durata) della vita migliorata. Resta però evidente la mancanza di una terapia in grado di correggere il difetto genetico, di fermare il naturale decorso della malattia, di eliminare la necessità della somministrazione di una terapia per tutta la vita e di offrire prospettive di vita ancora migliori. Proprio per questo motivo, partendo da modelli cellulari e murini, su cui sono stati fatti tutti gli studi preclinici, è ora in corso un trial clinico su CTNS-RD-04, una terapia genica sperimentale che dovrebbe fornire all’organismo dei pazienti una popolazione di cellule staminali ematopoietiche in cui il gene è stato corretto in modo da produrre la proteina funzionale.

    Lo studio clinico è di Fase I/IIe serve a valutare sicurezza ed efficacia della somministrazione della terapia genica in 6 pazienti adulti e adolescenti con un’età superiore ai 14 anni e diagnosi di cistinosi. Le cellule staminali ematopoietiche del paziente vengono prelevate e modificate in laboratorio per esprimere la forma corretta del gene CTNS: se tutto procedesse come ideato nella progettazione dello studio, queste cellule dovrebbero andare nel midollo osseo, dove si divideranno e differenzieranno dando origine a una popolazione cellulare senza il difetto correlato alla malattia metabolica.

    Per approfondire l’argomento, leggi gli articoli su Osservatorio Terapia Avanzate e Osservatorio Malattie Rare.

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